Mi hanno hackerato il profilo, che fare?

Ormai la vita delle persone è proiettata sempre più sui social network. Anche in questo campo si combatte quotidianamente contro attività illegali. Una su tutte: l’hacking di profili Instagram. Hackerare significa violare.

Hackerare un profilo Instagram vuol dire impossessarsene e lasciare ”chiuso fuori” il legittimo proprietario.

Vengono cambiate la password e spesso anche lo username, oltre che l’email e il numero di telefono relativo a quell’account. A questo punto abbiamo diversi scenari. Il criminale potrebbe salvare sul proprio PC i contenuti come ad esempio video, storie, foto, post per poi eliminarli dal profilo. Se l’intento era quello di arrecare semplice danno alla vittima l’hacker si ferma qui e il profilo cessa di esistere.


Il danno è sostanziale se si tiene conto che di solito la vittima con Instagram ci lavora. Quando invece c’è uno scopo di lucro allora alla vittima verrà chiesto del denaro per la restituzione di tutto il materiale cancellato. Il prezzo del “riscatto” varia da qualche decina o centinaia di euro fino a svariate migliaia per quei profili appartenenti a personaggi famosi, influencer o attività commerciali.

COME AVVIENE IL FURTO DELL’ACCOUNT: di solito tramite un messaggio diretto in cui si chiede un codice di sicurezza. La vittima si fida, comunica quel codice e l’hacker si impossessa dell’account

COSA FARE A QUEL PUNTO?
Niente paura. Si può procedere autonomamente contattando Instagram e chiedere il ripristino dei propri dati. Il problema è che Instagram non ha un iter semplice.
La seconda cosa, assolutamente consigliata, è denunciare alla Polizia Postale la violazione. Anche qui però significa impiegare diverse ore in questura per sporgere denuncia oltre ad una serie di adempimenti legali. Se si ha a disposizione tempo, voglia e pazienza è meglio procedere in autonomia altrimenti ci si può rivolgere ad un avvocato insieme ad agenzie informatiche specializzate.
Sia in autonomia e sia affiancati da professionisti la maggior parte delle volte l’esito è positivo. Si rientra in possesso del proprio account e la Polizia Postale individua il responsabile della violazione al quale si potrà chiedere un risarcimento per il reato commesso.

Referendum del 12 giugno sulla giustizia

1° QUESITO: abrogazione legge Severino. La Severino genera un automatismo che non tiene conto della complessità dei casi che si verificano nella vita giudiziaria di un paese. È molto meglio lasciare alla magistratura la discrezionalità di decidere se un reato sia incompatibile con le cariche pubbliche. La Severino produce dei vuoti di potere democraticamente eletto a causa di reati che spesso nulla hanno a che fare con l’onorabilità politica di un cittadino.

2° QUESITO: custodia cautelare. Io sono una garantista. Per me c’è un abuso dello strumento del carcere preventivo. Ogni anno troppi sono gli innocenti che vengono giudicati tali alla fine del processo e che invece hanno trascorso mesi in cella. A poco vale l’indennizzo dello Stato. Nessuna somma economica può risarcire del tempo passato in prigionia per errore. La libertà non ha prezzo.

3° QUESITO: separazione funzioni dei magistrati. Il meccanismo attuale provoca distorsioni e guasti nei percorsi processuali. C’è da chiedersi come sia ancora possibile lasciare che un giudicante e un accusatore possano formarsi insieme e scambiarsi di ruolo in qualunque momento della propria vita professionale. Ciò è un danno evidente nei confronti del diritto dei cittadini ad un giusto processo senza che sia inquinato da relazioni, storie personali e contiguità emotive e affettive fra i giudici che emettono sentenza e quelli che accusano.

4° QUESITO: allargamento consiglio direttivo della Corte di Cassazione. Esso rappresenta un vantaggio e un’apertura di un potere dello Stato alla società civile, alle sue trasformazioni e soprattutto alle sue esigenze, rendendo la giustizia sempre più adeguata alla vita delle persone.

5° QUESITO: abrogazione firme per la candidatura al CSM. Serve a contrastare il meccanismo delle correnti politiche in magistratura. Quello giudiziario deve essere un potere autonomo. Abrogando le 25 firme si applica lo spirito costituzionale di pesi e contrappesi liberando la magistratura dalla politica.

Per questi motivi, espressi molto sinteticamente, io voterò SÌ
a tutti i referendum, e invito tutti a farlo.

Oltre il mobbing

Nel bene e nel male buona parte delle nostre vite trascorre sul posto di lavoro.

E quando il posto di lavoro diventa un luogo di emarginazione sociale, esclusione, derisione, isolamento, discriminazione allora la vita può diventare un inferno.

Questo è il mobbing, cioè quel fenomeno sempre più frequente che vede un soggetto letteralmente bullizzato dai colleghi, dai superiori o, anche se più raramente, dai propri dipendenti.

Può accadere di esserne vittima in periodi di debolezza, di fasi difficili della propria vita, in cui si è più fragili. Oppure accade perché si ha un carattere sensibile, riservato o troppo intraprendente.

A volte si è vittima di mobbing per una propria particolarità come l’orientamento sessuale, la nazionalità, la religione, o anche solo il proprio genere, e in quest’ultimo caso è più facile che accada alle donne. ,

Una volta si diceva “essere messi in mezzo”. Succede che il gruppo di lavoro di cui si fa parte, oppure tutto l’ambiente sociale di lavoro, o il tuo capo, oppure magari la tua organizzazione ti riconoscono come un soggetto da trattare in maniera subordinata.

Ti classificano e quindi ti trattano come un individuo da umiliare. E la cosa non avviene solo tramite un semplice dileggio o un banale sfottò. Al contrario: accade che ti vengano assegnati compiti inadeguati al tuo ruolo, sia compiti difficili, impossibili da portare a termine, per metterti in difficoltà e poterti criticare aspramente, ma anche compiti estremamente semplici come per dirti che sei un incapace, adatto solo a cose elementari. Il mobbing si avvale di una qualunque strategia che riesca a mettere in seria difficoltà un lavoratore.

In Italia non esiste una legge contro il mobbing, e vincere una causa del genere è una cosa abbastanza impegnativa per un legale. Ma ciò non vuol dire che bisogna accettare questo stato di cose. Serve una legge, e serve subito, perché il posto di lavoro per ogni persona deve essere la sede della propria realizzazione e non un luogo di sofferenza.

Questa maledetta guerra nel cuore dell’Europa

È appena scoppiata una guerra nel cuore dell’Europa, dentro casa nostra. La cosa è veramente triste e inquietante. È triste per quelle povere persone in Ucraina costrette a subire il terrore della violenza. Inquietante per tutti noi che, nella migliore delle ipotesi, ne pagheremo comunque in maniera indiretta le conseguenze.

La situazione è certamente complessa: da una parte abbiamo un autocrate, Putin, che basa sul terrore il proprio potere assoluto e usa la violenza della guerra per regolare i rapporti con gli altri Stati violando prepotentemente il diritto internazionale. E poi dall’altra abbiamo gli Stati Uniti che, lontano da casa propria, continuano a provocare le altre potenze portando sotto la propria influenza Stati come l’Ucraina.
L’Ucraina che per condizione geopolitica e posizione territoriale sarebbe molto meglio se restasse neutrale giovando così all’equilibrio mondiale.
Un conflitto che ha molti padri insomma.
Una situazione difficile e dura da accettare soprattutto dopo due anni di sofferenze per una pandemia che ha già messo abbondantemente tutti a dura prova.

Una cosa però in tutto questo mi ha stupito. Perdonerete il gioco di parole: mi ha meravigliato la meraviglia. Le persone sui social si scandalizzano per questo conflitto quando ogni giorno nel mondo le guerre mietono vittime innocenti.
È proprio vero che le cose le senti quando ti toccano da vicino. Ma io dico che dovremmo meravigliarci e indignarci per la guerra sempre, non solo quando sentiamo il fragore delle bombe vicino.

Per adesso speriamo che tutto finisca presto, soprattutto per il popolo ucraino, per quei bambini, quei padri strappati alle famiglie e per tutti quegli innocenti che presto diventeranno profughi di guerra.

Obbligo vaccinale e l’importanza di farsi domande

Il decreto del 5 gennaio impone l’obbligo vaccinale, che è un fatto giuridico reale.

Finora non mi sono espressa. Avrei parlato d’aria fritta. Sgombriamo il campo: sono vaccinata così come i miei figli.

Credo che un obbligo sia sempre una sconfitta per chi lo impone e per chi lo subisce. La coercizione resta uno strumento figlio della debolezza. Meglio rispettati che temuti.

L’utilità di questa imposizione è materia sanitaria, la sua opportunità è materia politica, la sua legittimità è materia del Diritto.

Per la Costituzione Italiana la salute pubblica è sovraordinata a quella individuale e un trattamento sanitario obbligatorio è possibile ma nel rispetto della dignità umana.

Mi chiedo: come si può imporre un vaccino? La polizia tiene il cittadino fermo, lui si dimena, gli infermieri lo vaccinano? Questa scena è lesiva della dignità dell’individuo?

O si prevedono solo multe più o meno salate? O sarebbe meglio imporre ai non vaccinati di restare a casa, tutelando sia la libertà individuale che quella collettiva?

E ancora: in caso di effetti avversi del vaccino lo Stato deve risarcire solo se è in vigore un obbligo? O, come sostiene il prof. Cassese, Presidente Emerito della Corte Costituzionale, anche solo la raccomandazione a vaccinarsi rende lo Stato responsabile di eventuali danni da vaccino?

Queste e molte altre domande si fanno strada sia nella mente di un’avvocata come me e sia in quella di chi, da cittadino, vive le scelte di governo. Una cosa è certa: agire per avversione e ripicca contro i non vaccinati è sbagliato. La tentazione di individuare minoranze contro cui scagliarsi è un pericolo antico di qualunque comunità.

La democrazia resta l’esercizio della tutela delle minoranze e non la dittatura di una maggioranza su una minoranza.
Chi non si vaccina e, peggio ancora, rifiuta le cure, paga col prezzo più alto: la vita. Rabbia e accanimento non servono. Serve invece capire utilità, opportunità e legittimità delle scelte. Serve interrogarsi, restare dubbiosi. Solo nelle dittature i dubbi non hanno spazio.

Io continuerò a pormi domande perché è quello che mi ha insegnato il mio percorso accademico, professionale, umano e politico.

Corridoi umanitari per il popolo Afghano

Solo quando sapremo sentire sulla nostra pelle qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo, potremo dire di essere persone migliori tali da lasciare il mondo meglio di come lo abbiamo trovato.

Oggi in Afghanistan si sta compiendo sotto gli occhi di tutti l’inizio di una tragedia di cui pagheranno le conseguenze soprattutto le donne e i bambini.
Non possiamo restare a guardare girandoci dall’altra parte.

Il regime talebano del terrore, che possiamo serenamente definire “Il Male”, ha ripreso il controllo del Paese.

Hanno cominciato a tagliare gole e giustiziare pubblicamente chi si oppone.

Le donne pagano e pagheranno più di tutti.

Per fare un esempio in Afghanistan, per la legge talebana, i ginecologi maschi non possono visitare le donne e le donne non possono studiare per divenire medici pertanto l’assistenza medica durante la gestazione e all’atto del parto è inesistente.
Un numero considerevole di donne e dei loro neonati moriranno durante la gravidanza o partorendo. Il burqa che sono costrette ad indossare non è solo un velo materiale di tessuto.

Il burqa che fa più male è quello culturale, sociale e politico che uccide la libertà, i diritti e la dignità soprattutto delle donne di quel Paese.

Ognuno di noi si chiederà: cosa posso fare io? Sembra strano ma la risposta è: tanto.

Parlarne sui social, scendere in piazza, discuterne, alimentare la pressione sociale e politica sulla nostra diplomazia fa veramente tanto.

I nostri rappresentanti devono sapere che a noi italiani questa indifferenza non sta bene e che chiunque dimostrerà sensibilità umana verso quel popolo sarà ricompensato col consenso elettorale.

I politici sono sempre molto attenti agli umori degli elettori. Questo è il nostro unico potere. Dobbiamo chiedere corridoi umanitari per salvare quella gente. Sono famiglie, lavoratori, donne indifese, bambini senza protezione.

Noi dobbiamo fare pressione, è un dovere etico, civile, morale e politico che ognuno di noi ha. Dobbiamo lasciare un mondo migliore ai nostri figli, un mondo dove nessuno sia abbandonato nelle mani dei propri aguzzini e noi italiani abbiamo la sensibilità giusta e dobbiamo dimostrarlo.

Corridoi umanitari subito!

Le ragioni di una candidatura – Amministrative 2021 – Mariagrazia Santosuosso

Ho firmato la mia candidatura come consigliere della 1^municipalità Chiaia-San Ferdinando-Posillipo

Servire una comunità, ecco cos’è per me la politica. Ognuno di noi deve alla propria comunità tante cose. Ci avvantaggiamo ogni momento degli altri e dell’ambiente che ci circonda. Nessuno di noi da solo conta qualcosa. La propria consapevolezza dipende daI posto che ognuno occupa nel meraviglioso scenario sociale in cui la vita ci ha calato. Io amo Napoli e adoro il quartiere dove vivo. Mi piacciono le persone, le pietre dei palazzi, i profumi, i colori, il clima, il meraviglioso modo della mia gente di affrontare la vita e risolvere i problemi. La mia comunità mi ha insegnato e dato tanto. Mi ha dato un ruolo e un compito. Qui sono stata prima studentessa. Poi in questo pezzo straordinario di Napoli sono diventata adulta, donna, madre e professionista.

Questa Napoli mi ha insegnato a vivere, a dare e ricevere. Perché Napoli è soprattutto scambio sociale, culturale. Napoli è apertura, accoglienza, contaminazione, comprensione profonda dei problemi altrui. Sono da sempre convinta che un napoletano ragiona molto più di altri come cittadino, come un pezzo di un insieme più grande. Napoli è empatia. Napoli è quanto di più distante dall’individualismo, dall’egoismo e dalla solitudine. A Napoli nessuno è solo. Questo ha insegnato Napoli a me che vengo dalle alte colline dell’Irpinia. Napoli è un grande abbraccio costante. E questo deve restare Napoli. In questo serve essere profondamente conservatori, gelosi custodi di un’identità nobile, complessa, che conosce bene il dolore e la gioia di essere e sentirsi popolo.

Ho ricevuto tanto da questa città e da questa municipalità e sento di dover restituire. Voglio dare tempo, risorse, idee, tenacia, intuito, conoscenze e competenze. Voglio dare la mia disponibilità. Voglio mettere a disposizione il mio carattere che sento da sempre così adatto a questa città. Per questo mi sono candidata alla municipalità a cui appartengo, l’ho fatto come gesto di riconoscenza. Perché la politica è prima di tutto questo: riconoscenza verso una comunità.

Nel mettermi a disposizione ho dovuto compiere una scelta. Non ho avuto alcun dubbio. La mia storia, i miei studi, tutto il paradigma di valori che da sempre mi contraddistinguono non potevano che farmi scegliere Alessandra Clemente. Io e lei abbiamo troppe cose in comune e per questo percorro con lei la strada dell’impegno civile, sociale e politico. Abbiamo visione e senso comuni. Ci uniscono le stesse idee, gli stessi valori e lo stesso quadro ideologico generale. Ho deciso per Alessandra perché una scelta politica, quando non è un fatto privatistico e di interesse personale, va fatta principalmente sulla base di un’appartenenza, di un senso identitario condiviso.

Come avvocata, oltre che il diritto, mi stanno a cuore i diritti. Soprattutto quelli degli ultimi, di chi è rimasto indietro, di chi vive ogni giorno sulla propria pelle tutte le disuguaglianze e le contraddizioni delle nostra società. I diritti come medicina per le ingiustizie.

Mi metto a disposizione per le donne, per le famiglie in difficoltà, per i migranti, per chi non ha lavoro, per chi ancora non ha perso la speranza di poter perseguire la propria serenità, ma anche per chi quella speranza l’ha persa. Mi do disponibile per sostenere tutti coloro che oggi vivono giorni di grande disagio. Sono a disposizione per collaborare con una grande squadra piena di entusiasmo e slancio. Un collettivo giovane ma maturo, quello che circonda Alessandra, che vive il proprio tempo e sa perfettamente da dove viene e soprattutto dove vuole andare.
Foglie e frutti ma anche e soprattutto radici.

Per questo mi candido per Alessandra Clemente alla mia Municipalità. Perché voglio restituire al mio quartiere e a tutta la mia città un pezzo di me stessa che a loro appartiene.

Ci vedremo nelle case, nelle piazze, nelle strade a parlare di problemi e soluzioni insieme, come un vero popolo sa fare, nell’interesse di tutti, affinché nessuno veda mai più i propri diritti calpestati.

Maria Grazia Santosuosso, avvocata.

Sindrome da alienazione parentale

Ci sono situazioni e contesti, a volte dolorosi, dove la dimensione psicologica si mescola a quella giuridica.

Una di queste circostanze è quella in cui una famiglia attraversa un periodo di disagio relazionale. La complessità delle relazioni familiari è inimmaginabile.

Queste situazioni difficili infatti possono trarre origine da cause diverse ed evolversi e risolversi in vari modi.

Anche i protagonisti hanno condotte e ruoli differenti.

Una cosa, per quanto può sembrare banale e scontato, è certa: quasi sempre le vittime sono i figli.

Su Wikipedia leggiamo:

“La sindrome da alienazione genitoriale o sindrome da alienazione parentale (PAS, sigla dalla locuzione in inglese Parental Alienation Syndrome) è una controversa dinamica psicologica disfunzionale che, secondo le teorie del medico statunitense Richard Gardner, si attiverebbe sui figli minori coinvolti in contesti di separazione e divorzio dei genitori, definiti conflittuali, e in particolare nei procedimenti giudiziari per l’affidamento dei figli minori”.

Pertanto qualunque azione parte e si indirizza con uno scopo ben preciso: tutelare i minori da questa sindrome.

Sicuramente tante sono le domande nei conflitti familiari.

È meglio una famiglia molto conflittuale ma unita o meglio una famiglia divisa ma in pace?

E qual è il limite del conflitto familiare sopportabile oltre il quale è meglio che una famiglia venga dissolta?

Per non parlare di quando una famiglia finisce restando, ahimè, conflittuale, che è il caso peggiore.

La prima cosa da fare ovviamente è provare a capire quali sono le cause che portano a far scontrare due genitori e tentare di riparare i guasti in autonomia.

Molto spesso ciò non è possibile.

In questo caso l’intervento di uno psicologo matrimoniale può risolvere i problemi con una terapia di coppia mirata. Eppure a volte neanche così si riesce a risolvere e i genitori decidono che è arrivato il momento di lasciarsi. Fin qui il danno è limitato.

E se una separazione coniugale può riportare serenità tra i suoi membri siamo di fronte al cosiddetto “danno minore”.

Ma non va sempre tutto così liscio. In queste dinamiche spesso uno dei due genitori mette in atto una condotta di strumentalizzazione di uno o più figli come arma per vendicarsi o comunque danneggiare il partner con cui la relazione è finita.

Ecco, questo rappresenta uno dei danni più deleteri che si possa infliggere ai propri figli.

E il danno non è correlato solo ai rapporti fra genitori e fra figli.

Il conflitto infatti spesso approda in tribunale con un ulteriore trauma, extrafamiliare, per i minori.

Qui bisogna intervenire e persuadere i genitori che i figli sono intoccabili, che non vanno mai usati e che il rapporto fra i propri figli ed entrambi i genitori è sacro.

Denigrare, aizzare, sobillare uno o più figli contro un genitore non è mai e poi mai la strada giusta.

Partiamo dal presupposto che se un genitore si comporta male con i figli o comunque in maniera inappropriata per il suo ruolo, i figli quasi sempre se ne accorgono autonomamente.

Ma seppure dovesse esserci un sospetto di plagio o di raggiro di un minore da parte di un genitore, l’altro, tutt’al più deve parlarne con le figure preposte: assistenti sociali, consulente psicologico o con un avvocato.

Ma quando effettivamente va coinvolto un avvocato?

La risposta è semplice: quando qualcuno, specialmente se minore, sta subendo un danno concreto materiale o psicologico.

E qual è la funzione primaria di un avvocato?

Qualcuno risponderà: tutelare il proprio assistito. La risposta è no. La missione di un avvocato, specialmente in questi casi, è contribuire a riportare la giustizia in un contesto familiare. E questo per una ragione molto semplice: perché senza giustizia non c’è pace, e senza pace ci perdono sempre tutti, nessuno escluso.

Quando non c’è giustizia chi ha subìto un danno reagirà spesso in maniera aggressiva e violenta perché si sente vittima e tenta, spesso con ogni mezzo, anche illegittimo, di non subire più. Al contempo chi si sta comportando male continuerà a farlo sentendosi forte e con le spalle coperte, sicuro/a di potersi comportare male senza subirne le conseguenze.

La figura dell’avvocato in queste dinamiche va ben oltre il semplice dato giuridico. Per cominciare un bravo avvocato divorzista ha sempre come obiettivo principale la tutela dei minori della famiglia prima ancora che del proprio diretto assistito.

Un avvocato divorzista mira a ristabilire la giustizia perché in un clima sereno di riconoscimento e rispetto di tutti i membri di una famiglia o di una ex-famiglia tutti ne traggono beneficio, anche il proprio assistito e soprattutto i suoi figli.

Pertanto quando si sceglie un avvocato in una causa di divorzio o separazione bisogna fare sempre molta attenzione.

Le cause penali in cui sono coinvolte le famiglie, specie con minori, sono quelle in cui c’è bisogno di avvocati contraddistinti da una grande deontologia professionale, un profondo senso di responsabilità e una straordinaria sensibilità umana.

Le sentenze preconfezionate sono la negazione totale dello Stato di Diritto.

Ciò che è accaduto il 19 maggio 2021 presso la Corte d’Appello di Napoli è di una gravità inaudita. Lo è per i cittadini, per l’avvocatura, per la magistratura e per lo Stato e la sua credibilità. Fino ad ora ho ritenuto di attendere prima di scrivere questa riflessione. Ho atteso per esprimere il mio pensiero perché ho rispetto degli organi e delle organizzazioni alle quali appartengo. Ora che le camere penali del distretto di Corte d’Appello si sono espresse, è doveroso che un avvocato come me dica cosa pensa della gravissima vicenda che si è consumata.

Il fatto in sintesi: l’avvocato Gerardo Mariano Rocco di Torrepadula chiede al cancelliere, prima dell’udienza fissata dinanzi al collegio della quarta sezione della Corte d’Appello di Napoli, di prendere visione del fascicolo processuale. All’interno del fascicolo l’avvocato rinviene un sotto-fascicolo dove giace la sentenza già scritta. Sì, avete letto bene. Insomma negando il contraddittorio e senza ascoltare le ragioni degli imputati il relatore aveva redatto la sentenza. 

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